Centrali nucleari, ritardi e costi di smantellamento
Sembra essere un’altra delle storie “all’italiana” in cui l’efficienza e l’efficacia di un’attività si perdono nelle lungaggini burocratiche, con la dilapidazione di tanti soldi pubblici di cui si finisce per perdere le tracce e le responsabilità. Ma questa volta in ballo c’è molto più di una commedia nazional popolare, qui c’è in gioco la sicurezza nazionale e, in parte, il futuro energetico del nostro Paese. Accade cioè che in pieno dibattito sulla transizione energetica e sul ruolo da assegnare alle singole fonti per garantire all’Italia il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità fissati dall’Unione Europea, si viene a scoprire che, con ogni probabilità, abbiamo quasi buttato via venti anni di bonifiche nucleari con i relativi pesantissimi costi.
La Sogin (Società gestione impianti nucleari), la società pubblica incaricata di effettuare il cosiddetto decommissioning delle centrali nucleari italiane, cioè il loro smantellamento e messa in sicurezza, dopo l’abbandono da parte italiana dell’energia atomica seguita all’incidente di Chernobyl del 1986 e il referendum dell’anno successivo, è finita in questi giorni nella bufera. Conti che non tornano, lavori ancora molto lontani dall’essere completati e così il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, insieme a quello dell’Economia, Daniele Franco (la Sogin è controllata al 100% proprio dal MEF) starebbe pensando al commissariamento della Sogin. I dati sono eloquenti: l’attività della società è finora costata 4 miliardi di euro, presi dalla quota addebitata in bolletta agli italiani, con solo il 30% complessivo dei lavori di smantellamento e stoccaggio dei rifiuti nucleari delle quattro vecchie centrali di Caorso, Garigliano, Latina e Trino Vercellese, che è stato finora effettuato. Nei programmi messi nero su bianco dai decreti Bersani e Marzano, nel 2001 e 2004, la Sogin, costituita nel 1999, avrebbe dovuto completare i lavori di smontaggio delle centrali e raggiungere l’obiettivo “prato verde” entro il 2019, con un costo totale di 3,7 miliardi di euro, che nel coso del tempo è stato aumentato fino al più che raddoppio che tocca la cifra di 7,9 miliardi e conclusione dei lavori stimata al 2036. Un pozzo senza fondo, verrebbe da dire, con più della metà dei 4 miliardi finora spesi (2,2 miliardi) che sono andati agli stipendi del personale e dei dirigenti. Qualcosa sembra non essere andata per il verso giusto, evidentemente, tanto che a fine dicembre la Guardia di Finanza ha sequestrato documenti e computer dalla sede della Sogin.
A rendere ancor più delicata la vicenda è la questione di sicurezza nazionale che si appiccica prepotentemente ad una situazione molto complicata: la costruzione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi. Qui siamo ancora dentro una lunga e tortuosa procedura per l’individuazione del sito dove costruire il deposito, anni di selezioni, criteri di valutazione e rinvii che hanno portato solo alla decisione di non decidere.
Si aprono così grandi incognite sulla gestione del nucleare in Italia negli ultimi anni, così come è evidente che il terreno perso dal nostro Paese in tema di ricerca e sviluppo sull’energia atomica appare incolmabile rispetto ad altri Paesi che, invece, hanno puntato nei decenni scorsi su questa fonte energetica. È questo, soprattutto, oltre ai grandi problemi e incognite legati alle scorie radioattive prodotte dalle centrali nucleari, che rende impraticabile a breve per l’Italia l’opzione nucleare come fonte per la transizione ecologica.