COP 26, la conferenza sul clima italo-britannica che parte con il piede sbagliato
A cinque anni dagli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici il mondo si è dato un nuovo appuntamento per cercare di imprimere una direzione alle politiche green. Si tratta della COP 26, la 26esima Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sul cambiamento climatico, in programma a Glasgow dall’1 al 12 novembre 2021. Anche l’Italia avrà un (mini) ruolo di carattere programmatico-organizzativo, formalmente un partenariato con il Regno Unito ma di fatto la Presidenza di COP26 è degli inglesi, mentre l’Italia ospiterà gli eventi preparatori a Milano, tra cui l’evento speciale per i giovani “Youth4Climate: Driving Ambition”, dal 28 al 30 settembre 2021, e il vertice Pre-COP, dal 30 settembre al 2 ottobre.
La divisione dei compiti tra i due Paesi è stata adottata al termine della COP25 di Madrid, nel dicembre 2019, in un’ottica di collaborazione consolidata visto che proprio Regno Unito e l’Italia, nei prossimi mesi, avranno rispettivamente la presidenza del G7 e quella del G20.
COP26 è dunque una Conferenza delle Parti in ambito ONU, una convenzione internazionale che è prevede un piano globale per raggiungere emissioni zero entro la metà del secolo, con azioni più a breve termine per ridurre fortemente le emissioni nocive entro il 2030.
Obiettivo ambizioso, forse troppo, nel senso che troppo spesso i vertici internazionali targati COP si sono rivelati un fallimento, se non una mera dichiarazione di intenti piena di formalismi e senza seguito concreto, buona soprattutto ad essere sventolata come trofeo dai globalisti dell’ecologismo. Di più, pezzi di carta dai titoli roboanti dietro cui movimenti ecologisti dai programmi messianici e catastrofisti, spalleggiati da governi e internazionali finanziarie, si sono riparati per giustificare ogni tipo di azione politica, soprattutto se rivolta a introdurre balzelli a danno di industrie e attività imprenditoriali.
Tra le precedenti assise internazionali che più si ricordano per aver conseguito eclatanti risultati e quindi diventati pezzi più colorati di quella bandiera ecologista da esibire ad ogni buona occasione (cioè sempre) c’è il cosiddetto “protocollo di Kyoto” del 1997, il trattato internazionale sul surriscaldamento globale firmato nella città giapponese da più di 180 Paesi. Era quella la Conferenza delle Parti “COP3 ” a cui ha fatto seguito, sempre tra gli appuntamenti più noti, l’accordo di Parigi sul clima, il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, adottato nel COP 21 del dicembre 2015 da più di 190 Paesi.
Cerro è che il cammino verso COP 26 non è stato dei più facili, colpa soprattutto della pandemia ma anche dell’incertezza degli Stati, tanto che nelle scorse settimane è dovuto intervenire il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, per strigliare partecipanti alla COP26 e indurli a stringere i tempi. “La pandemia non può essere una scusa per tergiversare, occorre iniziare subito le trattative, anche online, per arrivare a alla conferenza Onu di novembre con un accordo”, ha detto Guterres. E si, perché gli accordi, quelli seri, non si concludono il giorno dei grandi meeting internazionali, quello è il momento della festa, dei tramezzini e dei brindisi a favore di telecamera. La sostanza degli accordi è frutto del fitto lavoro diplomatico dei mesi precedenti, ma sentendo l’aria che tira il COP 26 a firma italo-britannica sembra non essere destinato a restare negli annali come tra i più riusciti, e a non finire nello sbandieramento dell’ecologismo globalista.