COP 28: A CHE PUNTO SIAMO?
Che nella riunione della cop 28 di Dubai si sia molto discusso di nuove fonti di energia come quella nucleare, rappresenta in un certo senso una piccola svolta verso quella neutralità tecnologica che dovrebbe essere la via maestra da seguire nel lungo e tortuoso percorso verso una responsabile e sostenibile
transizione energetica. E anche le polemiche seguite al fatto che a presiedere la cop ci sia Ahmed al-Jaber, amministratore delegato del gigante petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, la Abu Dhabi national oil company (Adnoc), sono sembrate strumentali e in quella logica ideologica che sembra ormai prevalere nel dibattito intorno alla transizione energetica green. Ed ecco che in questa ottica assumono allora un rilievo ancora più importante le parole pronunciate a Dubai dalla premier italiana Giorgia Meloni, che parla di “una sostenibilità ambientale che non comprometta la sfera economica e sociale”, ribadendo come l’italia stia facendo la sua parte” nel processo di decarbonizzazione, lo fa in modo pragmatico, con un approccio di neutralità tecnologica, libero dal radicalismo. Dobbiamo perseguire una transizione ecologica, e non ideologica”.
L’Italia, come ha detto la premier, ha annunciato proprio a Dubai uno stanziamento da oltre 100 milioni di euro per compensare i danni provocati dal cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Il destino dell’umanità è in bilico” ma “non è troppo tardi” per “prevenire lo schianto planetario e l’incendio” ha invece sottolineato con enfasi, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres in apertura della sessione plenaria nel secondo giorno di Cop28. Una assise sul clima a cui colpevolmente hanno scelto di non partecipare i presidenti di Cina ed Usa, che pure essendo i principali inquinatori, non hanno ritenuto opportuno dare un segnale almeno dal punto di vista dell’immagine.
Senza una vera condivisione del problema da parte di tutti, Cina e Usa in testa sarà impossibile ottenere i risultati sperati. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta durante un panel sulla sicurezza alimentare, che ha definito “un tema di politica estera”. Poi ha sottolineato l’impegno italiano per fornire “cibo sano” a tutti: “No a cibo sintetico per i poveri e a cibo sano per i ricchi”. Nel suo discorso focus particolare sull’Africa, che – ha ribadito ancora una volta – “non ha bisogno di elemosina” ma di aiuti strutturati.Meloni ha poi annunciato che “l’Italia intende destinare una quota estremamente significativa del Fondo Italiano per il Clima, la cui dotazione complessiva è di 4 miliardi di euro, alle nazioni più vulnerabili dell’Africa, per iniziative volte alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici”.
Nella stessa giornata in cui la Meloni ha parlato, 118 paesi si sono impegnati ad aumentare la loro capacità combinata di energia rinnovabile a 11.000 gigawatt (GW) entro il 2030, rispetto ai 3.400gw dello scorso anno, come parte dei loro sforzi di decarbonizzazione. Ciò richiederà l’aggiunta di circa 1.000gw all’anno, tre volte quello che il mondo ha gestito l’anno scorso. Perché ciò accada, le rinnovabili devono tornare ad apparire come un business su cui scommettere. I recenti problemi del settore sono il risultato di una confluenza di fattori. Un problema è l’aumento dei costi lungo la catena di approvvigionamento. Il prezzo del polisilicio, un materiale chiave nei pannelli solari, è salito da 10 dollari al chilogrammo nel 2020 a ben 35 dollari nel 2022, grazie ai problemi della catena di approvvigionamento dell’era pandemica in Cina. Il prezzo dei moduli solari è salito in risposta.
Anche i costi relativi alle turbine eoliche sono aumentati vertiginosamente. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto salire i prezzi dell’acciaio, un importante input di cui entrambi i Paesi sono grandi produttori. Inoltre, per creare pale più lunghe e potenti, i produttori si sono spinti verso nuove frontiere con la tecnologia, tra cui la sperimentazione di materiali come i compositi in fibra di carbonio piuttosto che la fibra di vetro.
Tutto questo è aggravato dal crescente protezionismo verde. L’America ha di fatto bloccato i produttori solari cinesi con pesanti dazi antidumping e l’Uyghur Forced Labour Prevention Act del 2021, che vieta agli sviluppatori americani di importare moduli contenenti polisilicio dalla regione dello Xinjiang, fonte della metà dell’approvvigionamento globale. Come risultato di tali politiche, i moduli solari sono più del doppio più costosi nel paese che altrove, secondo Wood Mackenzie, una società di consulenza.
L’amministrazione Biden sta utilizzando i requisiti di contenuto interno del suo ambizioso piano anti inflazione IRA, per attirare la produzione a casa. First Solar, il più grande produttore americano di moduli, sta espandendo la sua capacità di produzione nazionale da 6 GW quest’anno a 14gw entro il 2026. Insomma anche sul clima si sta combattendo una guerra commerciale tra i due colossi mondiali e l’Europa, purtroppo, ancora una volta mostra tutta la sua ineluttabile marginalità.